Andrea Castellanza By

Ebbene sì: Masterchef!


Non avrebbe senso tenere una rubrica su qual è la percezione visuale del cibo sui media principali e nella storia della comunicazione, senza parlare del totem di tutte le trasmissioni televisive “food&beverage” degli ultimi 20 anni, dello zenith della cucina a 50 pollici, del più popolare e contestato show culinario non solo nazionale, ma mondiale, visto che il format si ripete, molto simile a se stesso, in 34 diversi paesi.

La sesta serie, appena iniziata in Italia, scatena, come negli anni passati, due fronti: gli entusiasti spettatori e i tetri denigratori, tra cui non mancano importanti addetti ai lavori.
Proviamo a fare una disamina obiettiva del programma, cercando di capirne pregi e difetti.

Punto primo: si tratta di televisione, tecnicamente di un talent show, e quindi non è la realtà, ma nemmeno un programma di ricette, di consigli di cucina e, men che meno, una propedeutica scuola per aspiranti chef.

Secondo: come tutti i programmi televisivi, Masterchef basa la sua popolarità sullo storytelling, sui conflitti che fanno di un racconto qualcosa di interessante, rivelati con sagacia attraverso un insieme di efficaci meccanismi tecnici (regia, montaggio, musiche, luci, scenografia, casting).
Contrariamente a molti talent show (sul canto, sul ballo, sulla fotografia, da “XFactor” ad “Amici”, da “The Voice of Italy” a “Italia’s Got Talent” fino a “Master of Photography”) che popolano le nostre serate catodiche, Masterchef ha una grossa penalizzazione: l’oggetto del talento, cioè la pietanza cucinata, non può essere valutata dallo spettatore, visto che ci è dato unicamente di vedere i piatti, ma non ovviamente di assaggiarli, contrariamente agli arbitrari pareri che possiamo scambiarci sul canto, il ballo, la fotografia, la recitazione.
E’ questo che dovrebbe tranquillizzare i detrattori maggiori: in fondo è palese che non si tratti di un programma di cucina, ma di un programma di “meta cucina”, dove il cibo è un elemento non così centrale, o meglio meno importante dei meccanismi ipnotici che , tra uno stacco e l’altro, una musica di suspense e un primo piano misterioso, un paesaggio in esterni ed una battuta folgorante, incollano lo spettatore al televisore. Non c’è ironia in Masterchef, ma c’è tensione, pura emozione televisiva.
Il fatto che la trasmissione abbia come elemento “centrale non centrale” il cibo, lo ha comunque reso in Italia, dove la cucina è una passione nazionale, un programma di punta, forse addirittura “il programma” degli ultimi anni, ma pochi spettatori si sono accorti di non avere mai assaggiato nemmeno una forchettata di un piatto visto in tv, nonostante lo abbiano giudicato davanti al divano. Qualcuno di loro forse vorrebbe il “televoto” per poter partecipare direttamente alle scelte dei giudici, perché la tv è un gioco a cui tutti aspiriamo giocare.
Va da se che le scuole alberghiere sono oggi stracolme di aspiranti di studenti, ammaliati dagli aspetti glamour e televisivi del mestiere del cuoco; questo avviene non solo per merito di Masterchef per la verità, ma per una generale sovraesposizione mediatica degli chef come “maître à penser”. Ma tranquilli, presto, dopo 12 ore consecutive, magari di domenica, in piedi dentro alla cucina di un ristorante nemmeno stellato, questi giovani in preda ad problematico abbaglio si ricrederanno.
Forse, ma questo vale per tutti i talent, sarebbe tempo che le dinamiche da tipica fiction tra mentori (i giudici) e apprendisti (i concorrenti) ritrovino la giusta via, raccontando con maggiore saggezza il rapporto tra chi insegna e chi impara, senza piatti che volano, scivolate volgari, sperpero di cibo. Su questo tema è palese che la nuova meritoria legge sullo spreco alimentare abbia condotto gli autori ad una vera e propria inversione a U nelle ultime puntate di Masterchef: doggy bag, concorrenti invitati a utilizzare il giusto…in fondo si può sempre migliorare…

Infine una riflessione sui giudici (Cracco, Barbieri, Cannavacciuolo e Bastianich): sono sicuramente sopra le righe in trasmissione, costretti ad interpretare ruoli monolitici, archetipici, come in un film. Fanno un mestiere diverso dal loro davanti alle telecamere e, seppur con visibili miglioramenti di anno in anno, è grazie al montaggio ed ai trucchi televisivi se sono fluidi, brillanti e fascinosi, in ruoli dove forse naturalmente non lo sarebbero. Ci piacerebbe vederli affascinare anche con la loro maestria culinaria, commentando qualche ingrediente, spiegando qualche preparazione. Nei pochi momenti in cui il programma dà loro questa occasione, riemerge prepotente la loro bravura professionale, che ci sarebbe bello vedere di più.
La loro incredibile popolarità, da vere rockstar, quasi fossero ambasciatori di tutti i cuochi d’Italia, li ripaga forse oggi di anni di sacrifici, di duro lavoro, e di successi professionali occultati “alla massa” con guadagni “televisivi” che li mettono in concorrenza con qualche calciatore. Un successo, in linea di principio, meritato e sudato.

Per concludere, cari giovani che volete diventare come Cracco in Masterchef, il consiglio è di fare una bella scuola di cinema e tv e lasciare perdere la scuola alberghiera. In trasmissione, purtroppo o per fortuna, la fase in cui si pelano le patate e si pulisce la cucina con tanto olio di gomito, è occultata opportunamente dal montaggio. State attenti!

 

Immagine dal sito ufficiale mastechef.sky.it

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