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Storie di Champagne, tra frati e donne manager


“Auguri!”. Tintinnare di cristalli. Scintillare di bollicine. È il momento del brindisi: il cuore della festa. E nei calici, immancabile, trionfa il vino spumeggiante delle grandi occasioni.
Certo, oggi nei bicchieri possono fare splendida figura spumanti italiani o spagnoli, americani e perfino australiani, bianchi o rosati, ma all’inizio c’era soltanto lui: lo Champagne. Perché tutto prende il via da lì e tutto comincia con la storia di un frate, anche se, come spesso accade in questi casi, è difficile distinguere la verità nell’intreccio di cronaca, tradizione e leggenda.
Qualcosa di assolutamente certo però c’è ed è la figura di Pierre Perignon. Nato a Sainte-Menehould nel 1639, Pierre Perignon abbraccia la carriera religiosa e sceglie la regola Benedettina. Nel 1668 i vertici dell’Ordine lo inviano nell’abbazia di Saint-Pierre d’Hautvillers, a nord di Épernay nella regione in cui era nato: la Champagne. A lui viene attribuito l’incarico di “cellario”, quello che oggi potremmo chiamare amministratore-economo, e in questo ruolo si trova ad occuparsi delle vigne di proprietà del monastero.
Le uve e i vini della zona erano conosciuti e apprezzati fin dal Medioevo, ma proprio nella prima metà del 1600 le guerre e i saccheggi avevano messo in ginocchio l’intera regione, devastando e riducendo all’abbandono abbazie, terre e vigneti. Ed è in queste condizioni che Dom Pierre (così viene sempre citato nei documenti e mai con quello che diventerà il marchio del più antico fra gli Champagne) si vede costretto ad impegnarsi per risollevare le condizioni della sua comunità monastica.
“Ora et labora”, recita la regola del Santo. E se sull’impegno di Dom Pierre nella preghiera possiamo soltanto avere fiducia, lo scrupolo e la dedizione nel lavoro è documentata dalle iniziative intraprese e dai risultati ottenuti. Naturalmente perfezionista, cominciò a selezionare le uve migliori coltivate nella zona, arrivando a scegliere fra tutte il pinot noir, quindi passò a individuare i terreni più adatti alla sua produzione, infine si impegnò nello studio e nella revisione delle tecniche di assemblaggio delle uve e di realizzazione del vino. In questo modo mise a punto un metodo di spremitura morbida che consentiva di ottenere un mosto chiaro, e quindi un vino bianco, anche da uve a bacca nera.
L’obiettivo era raggiunto: il vino che aveva fatto conoscere la Champagne nei secoli precedenti era rinato, migliorato e perfezionato. Ma se tutto si fosse fermato lì oggi avremmo soltanto un ottimo vino da tavola, bianco e fermo. Per il vero, grande salto di qualità mancava la spuma: mancavano le bollicine. Ed è a questo punto che la storia lascia il posto alla tradizione o addirittura alla leggenda. Anche qui (come per il pasticcio combinato in cucina dal garzone che finisce per infornare il primo panettone o per lo sciopero “fortunato” che portò a miscelare per errore i tabacchi per la produzione delle “Lucky Strike”) pare che la grande scoperta sia da attribuire al caso. Lo scoppio di alcune bottiglie messe ad affinare in cantina – si racconta – avrebbe rivelato all’abate la presenza della spuma prodotta dal vino. Altre fonti invece assicurano che Dom Pierre, per rendere più gradevole il vino, vi aggiungesse in primavera dei fiori di pesco e dello zucchero, scoprendo che, una volta stappate, le bottiglie producevano della spuma. In ogni caso l’abate si rese conto che lo “spumeggiare” era dovuto a una rifermentazione del vino. E sia che questa fosse dovuta a un errore nella vinificazione, sia che dipendesse dall’aggiunta di lieviti, contenuti nei fiori di pesco, e di zucchero, il risultato era la produzione di anidride carbonica. In ogni caso a Dom Perignon rimane il merito di aver apprezzato quella caratteristica e deciso di perfezionarla, cominciando da una innovazione fondamentale: la sostituzione dei vecchi tappi di legno (fatti regolarmente saltare dalla pressione interna) con tappi di sughero ancorati al collo della bottiglia con una gabbietta metallica.
Lo Champagne era inventato, ma presentava ancora qualche problema. Primo fra tutti la formazione di uno sgradevole deposito (la feccia) durante la fase di rifermentazione in bottiglia. E per la sua soluzione entra in scena una giovane signora: madame Clicquot.
Nel 1772 Phlippe Clicquot aveva dato il via a Reims ad una nuova attività per la produzione e la distribuzione di vini di grande livello, a cominciare, ovviamente, dallo Champagne e in pochi anni aveva conquistato un ruolo di primo piano nel settore. Nel 1798 Philippe fa entrare in azienda il figlio François, da poco sposato con Barbe-Nicole Ponsardin. Purtroppo però François viene a mancare prematuramente. È il 1805 e Madame Clicquot, divenuta Veuve Clicquot, ha soltanto 27 anni, ma dimostra subito di essere una donna determinata, coraggiosa e capace. Assume la gestione della proprietà di famiglia e diventa una delle prime donne imprenditrici. Con l’aiuto di Louis Bohne, già collaboratore del marito, distribuisce il suo prodotto in tutta Europa e introduce alcune fondamentali innovazioni: nel 1810 produce il primo Champagne millesimato e, soprattutto, nel 1816 risolve il problema del deposito nelle bottiglie con l’invenzione della prima table de remuage, una tavola che inclina le bottiglie, facendo gradualmente scivolare i sedimenti verso il collo della bottiglia, da dove possono essere rimossi per rendere lo Champagne più limpido e prezioso.
La vedova Cliquot non è però la sola donna protagonista della storia dello Champagne. A seguirne le orme è Louise Pommery che, alla morte del marito, subentra nella guida dell’azienda di famiglia fondata nel 1858 e impegnata principalmente nel commercio della lana. Ed è proprio la vedova Pommery che decide di abbandonare il settore tessile e di impegnarsi nella produzione di Champagne portando il marchio ad un ruolo di primo piano fra le “maison” della Regione.
Insomma, una storia di frati e donne manager, ma anche di tanti altri imprenditori capaci di scrivere la storia dello Champagne. E il risultato, a distanza di oltre tre secoli, è ancora nelle coppe che alziamo per un brindisi o nella bottiglia lanciata verso la fiancata di una nave per accompagnarla nel debutto fra le onde.

Daniela Guaiti

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About me

Daniela Guaiti, autrice instancabile di manuali di cucina, ha fatto della divulgazione gastronomica la sua missione nella vita. Ha scritto libri su quasi tutto quello che ha a che fare con il cibo: la cucina tradizionale italiana (18 volumi di Grande cucina Regionale) e quella etnica (Sushi, I sapori della cucina spagnola), la cucina d’autore (Le Carni, Sapori e profumi nella cucina di 12 grandi chef) e quella dietetica, senza dimenticare i prodotti tipici (1000 sapori da gustare nella vita), il vino (I grandi libri del vino) e la birra. Tantissimi libri, con diversi editori, da Gribaudo a Giunti, da De’ Vecchi a Rizzoli, ma anche giornali: prima La Cucina del Corriere della Sera, e adesso La Cucina Italiana. Perché oltre al cibo, nella sua testa c’è la scrittura. Si è laureata in Letteratura Greca alla Statale di Milano, ma subito ha capito che non ci sarebbe stata un’altra via possibile: tra la letteratura e le ricette ha sposato queste ultime, senza se e senza ma. Anzi, un ‘ma’ c’è: ma non prendiamoci troppo sul serio!

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2 Comments

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Reply 24 settembre 2015

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SALVATORE SECHI
Reply 16 novembre 2015

è il nipote (“Nicolas“) di Don Ruinart a lasciare per primo l'attività di venditore di stoffe per commercializzare il Vino di Champagne ( dello Zio Monaco)...infatti la Maison Ruinart è la più antica “1729“ della Champagne se non sbaglio....Il successo di Ruinart è tale che sei anni dopo, nel 1735, il commercio dello Champagne diventa l’unica attività della Maison.

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