Andrea Castellanza By

Su e giù per i Balcani occidentali, un viaggio nella cultura e nel gusto (parte1)


Quando si affronta un viaggio, qualsiasi viaggio, la fame di cultura e di conoscenza va a braccetto con la fame vera, che a casa durante la vita “normale” è sedata con pasti irregolari e spesso frugali: colazione, pranzo e cena, costituiscono invece per il viaggiatore un mantra insostituibile attraverso cui conoscere usi, costumi e persone senza risparmio. Se si affronta con convinzione un viaggio nei Balcani Occidentali, magari utilizzando la propria auto per arrivare dall’Italia alle soglie della Grecia, la tavola diventa un luogo eletto per capire, per immergersi nella realtà locale, per sentirsi parte integrante di un tutto e non un corpo estraneo in erratica esplorazione.
Il racconto che mi piace fare di un viaggio fatto di gola, di luoghi e di tanta strada, non è un racconto esageratamente lineare, dove si indicano km, confini e luoghi uno in fila all’altro, ma un bighellonare dell’anima e delgusto, che questa volta mi ha portato a cercare e a trovare cose che non cercavo e non trovavo in Croazia, Bosnia ed Erzegovina, Montenegro ed Albania, con un veloce passaggio obbligato iniziale e finale nelle lande carsiche e verdissime della ubertosa Slovenia. Proprio la Slovenia, terra più alpina che balcanica, propone alcuni lunghissimi stop doganali nel passaggio in Croazia (difficili da comprendere, data la presenza di entrambe nei noverodei paesi UE). È facile far impazzire il fido navigatore, cercando di evitare i salati pedaggi autostradali sloveni e, per evitare 10 km di autostrada slovena verso la Croazia, ci si imbarca in meravigliose variazioni tra doline e collinette, foreste con case dai tetti spioventissimi, boschi di conifere e tornanti. Nonostante un iniziale smarrimento, Trieste e la patria sono sempre dietro l’angolo, a pochi km, ad un passo, ma il sapore dell’esotico e dello straniero è subito servito, più dalla lingua dei cartelli che dagli aromi nell’atmosfera se, già a circa 3 km dal confine, a Kozina, ora non ha importanza se all’andata o al ritorno, è impossibile non essere travolti da un insano desiderio di carne trionfalmente suina  ben rosolata, visto che peporchettar alcuni km il ciglio della strada è presidiato da gloriosi camini-spiedo su cui ruotano unte e  vigorose decine di porchette saporite. Una nota di servizio, se mi è permessa, in questo racconto: inutile indicare luoghi precisi, nomi commerciali, locande e ristoranti. Un po’ perché in viaggio spesso non si ha tempo di provare le stesse cose più volte e quindi di confrontare le qualità offerte, un po’ perché è meglio lasciare (e beninteso, disattendere con metodo) i suggerimenti alle guide più o meno turistiche o più o meno online, dove spesso la qualità si confonde col prezzo, il servizio con la simpatia e la tipicità con i desiderata del visitatore italico, comunque sempre colpevolmente in cerca di una rispettabile pasta alla carbonara.
E dunque porchetta fu, croccante e morbida, semplice ed indigesta, unta e senza condimenti aggiunti. L’ossimoro è servito su scenografici stradoni. Ma la Slovenia, si sa, se si va per coste balcaniche è una sosta veloce, un fiato asburgico con echi italiani e slavi. Molti saranno, passo dopo passo, fino all’Albania, i ricordi, le sensazioni, le frasi non dette, i luoghi rinati dal disastro o morti per sempre, che riemergono dal recente passato in cui, in un tremendo tutti contro tutti, i Balcani furono teatro sanguinante dell’implosione jugoslava. Nonostante l’eco dell’odio reciproco tra questi luoghi e questi popoli rimanga nascosto e  soffocato, occhieggiante in qualche frase nel bel mezzo del discorso e del successo turistico con benessere post-bellico annesso, le commistioni, i retaggi, le fratellanze non si possono occultare nel piatto, con gusti che, come una collana di perle di forme diverse, ma colori uguali, si scioglie lungo migliaia di kilometri di costa ed entroterra.
La Croazia appare in fretta, e con lei il mare, che ne disegna la forma allungata; ad eccezione della regione di Zagabria e della Slavonia le splendide coste affacciate su decine di scenografiche isole delineano il percorso del gusto, dell’arte e dell’origine delle popolazioni. L’Istria, così vicina a noi dal punto di vista etnico-linguistico, enogastronomico e paesaggistico, poi la Dalmazia zaratina, più a sud quella spalatina ed infine la costa ragusana con le meraviglie romane, veneziane e slavo-adriatiche di Zara, Spalato e Dubrovnik. L’Istria e soprattutto Pola lasciano una memoria olfattiva, cromatica e gustativa immacolata, bianca: le polveri delle sue stradine affacciate su taglienti promontori e le facciate romane, veneziane e italiane dei suoi palazzi e del suo anfiteatro non possono che rispecchiarsi nel colore del suo piatto più famoso: il “Baccalà Bianco dell’Istria”, variazione del veneziano baccalà mantecato che ho provato in una versione particolarmente cremosa, in cui una dose generosa di latte aiutava notevolmente la satinata mantecatura. Non mancano all’appello nemmeno le “Sardele in Savor” tipiche della cucina della Serenissima e che portano in sé i semi delle contaminazioni ottomane (con una speziatura tradizionale molto più “spinta” rispetto all’uso attuale).
La pesca, i mercati del pesce (e i mercati in generale) ed i luoghi in cui il pesce stesso viene cucinato, sono struttura portante dell’economia locale: un trionfo di branzini, orate, calamari ripieni di gamberi e ancora cozze, vongole e tartufi di mare grigliati, “alla Buzzara” (o Busara), con o senza della pasta generalmente di ottima qualità. Si incontra qualche concessione (molte per la verità) alle contaminazioni gastronomiche da turismo di massa, da cui il Palazzo di Diocleziano di Spalato o la Stari Grad di Dubrovnik sono letteralmente travolte senza perdere di bellezza. Meno tipici i piatti di carne, anche se in una memorabile piazza di Spalato by night ricordo un indimenticabile petto d’anatra, forse autoctono, forse no.
Dubrovnik eccelle per la sua offerta raffinata e carissima, non solo nella ristorazione medio alta, ma anche in un semplice caffè al bar o in una bottiglietta d’acqua. La bellezza della città vecchia fa sopportare qualsiasi sopruso, diciamolo. Spalato, il cui centro storico romano-veneziano, racchiuso nelle infinite mura del Palazzo dell’Imperatore Diocleziano, è senza dubbio di sera uno degli spettacoli più impagabili a livello mondiale, è un formicolare di numerosissimi locali ben dimensionati e allestiti, che affiancano un’offerta ristorativa di pesce notevole con le più disparate scelte di street food, dove forse le più tipiche (fil rouge di tutti i Balcani ex-jugoslavi) sono le “Pekara” o panetterie, dolci e  salate, che preparano enormi croissant e focacce a tutte le ore del giorno e delle notte (rivedibili le enormi pizze a fette dal colore fosforescente). Di giorno quotidianamente spicca il ricco mercato della frutta, dove ordinatissime more e lamponi in primizia agostana vincono la sfida con ottime pesche, uva dalla buccia che tende alla scorza e fichi freschi, che, insieme al miele e alle marmellate (soprattutto di rosa canina) segnano le strade (spesso tortuose e meravigliose) di tutti i Balcani occidentali, con onnipresenti banchetti in Bosnia, Montenegro e Albania e dove i costi, al netto delle continue conversioni in corone, marchi, lek, euro, sono sempre davvero abbordabili, dietro il sorriso prima biondo e poi sempre più bruno di rubiconde signore locali.
Sia la costa dalmata che l’interno sono un’epifania di vigneti con ottimi risultati di Chardonnay e Cabernet, che vanno per la maggiore nei ristoranti numerosissimi insieme alla Malvasia istriana fino a Baska Voda, dove la Croazia incontra il confine bosniaco e con lui il ritorno (anche se parziale) ai gusti forti balcanici, pronti per  essere consumati con il Byrekloro coté di appiccicaticcio sudore e semplicità nelle locande di Mostar e di Sarajevo. In Bosnia, come ahimè provano le tristi peripezie recenti, croati germanici cattolici, musulmani ottomani e serbi slavi ortodossi si contendono un fazzoletto di terra pietrosa a suon di tradizioni e, purtroppo, spesso anche di bombe. 25 anni dopo la fine della guerra l’atmosfera è pacificata, ma tesa con poco pacifica volontà di ignorarsi o evitarsi, ognuno chiuso nelle proprie entità statali etnicamente definite. La valle della Neretva lungo la strada che da Mostar porta a Sarajevo è stupenda, tra canyon e calanchi quasi dolomitici. È il regno del “Burek”, focaccia di strada, fatta di pasta fillo stesa concentricamente sulla teglia e poi cotta sulla cenere di carbone, talvolta farcita di formaggio, carne di vitello e montone oppure ricoperta di crema di latte salata. La ritroveremo anche in Montenegro e in Albania con la dizione “Byrek”.

In ogni chioscoCevapi e pane Somun degli splendidi quartieri tradizionali ottomani di Mostar e di Sarajevo poi è protagonista il “Cevapi”, piccole salsicce spesso chiamate “dita”: cotte alla brace, fatte di carne di manzo e di montone (raramente di maiale), fortemente speziate, si mangiano col pane non lievitato “Somun”, talvolta abbinato al contorno di biete e patate in purea grezza onnipresente fino all’estremo sud balcanico.

Andrea Castellanza
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